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Elisabetta Catalano. L’io e la totalità dell’immagine nella performance italiana degli anni Settanta

Forse pochi sanno che nell’iconica scena di 8½ in cui Mastroianni cavaliere dell’inverno con sciarpa e cappello imbiancati dalla neve distribuisce doni al suo invidiabile harem femminile, la prima a cui si rivolge è la giovanissima Elisabetta Catalano: «Questo» – prendendo il primo pacchettino in alto alla pila di regali tra le braccia – «per la mia cara cognatina alla quale finalmente sono diventato simpatico…». Giovanissima, bella, caschetto biondo e naso elegantemente affilato, la Catalano ottiene una piccola parte nel film colosso felliniano. Quello che è più importante però è che sarà in questa occasione, sul set di 8½, che prenderà ufficialmente in mano la macchina fotografica. Il suo talento verrà subito notato da Fellini, il primo a incoraggiarla su questa strada. Dopo quella prima esperienza infatti il regista la chiamerà a fotografare i set di molti altri film, divenendo in seguito lui stesso una tra le celebrità predilette immortalate dalla Catalano.

Se da un lato è più che doveroso affiancare il suo nome a quello della nascente e scintillante mondanità romana anni ’60-’70 – tutti la ricordiamo principalmente come ritrattista dei vip di quel periodo – dall’altro è altrettanto fondamentale il suo rapporto specifico con la performance. Elisabetta Catalano può considerarsi a tutti gli effetti la co-autrice di alcune delle più importanti performance in Italia di quegli anni. La recente mostra al MAXXI Elisabetta Catalano. Tra immagine e performance, conclusasi lo scorso 6 settembre e organizzata nell’ambito del progetto Performing the Archives con la collaborazione dell’Archivio Catalano e curata da Aldo Enrico Ponis, ha messo in luce l’intima connessione della ritrattista con Joseph Beuys, Fabio Mauri, Vettor Pisani e Cesare Tacchi.

È il 1973 quando Beuys, a Roma in occasione di Contemporanea, si reca in visita allo studio di Elisabetta Catalano per un ritratto. È insieme a Lucio Amelio, suo gallerista, al collezionista Pasquale Trisorio (e poco dopo lui stesso titolare dell’omonima galleria napoletana, a riviera di Chiaia) e a Graziella Lonardi. Scultura vivente nascerà inaspettatamente e in modo estemporaneo: l’artista si fa fotografare mentre regge un oggetto invisibile, quasi nell’atto di porgerlo all’osservatore; le sue mani si stagliano tra lo spazio vuoto e il suo corpo assorbito dallo sfondo nero, la gamba poggiata sul muro, un piede a terra nello scarponcino di pelliccia, l’altro poggiato alla parete. L’incontro tra la performance e la fotografia non si limita alla dialettica di documentazione nel caso della Catalano. S’instaura tra fotografo e performer una relazione di empatia oltre che di reciproca produttività, il cui risultato sono opere a quattro mani d’introspezione personale e artistica.

I ritratti evocano il dibattito tra singolarità e alterità che le immagini della Catalano esplicitano. Si scontra attraverso la macchina fotografica la totalità rappresentata dalla molteplicità semantica che l’immagine del performer reca con sé, colma della sua autenticità poetica, e l’occhio della macchina, soggettivo ma aperto alla restituzione di un mondo mediante la scelta dell’istante giusto. A tutti gli effetti è come se la relazione dell’individuo con la totalità mondo che si staglia dinnanzi al fotografo fosse il pensiero, coerentemente con le parole del grande filosofo dell’alterità Emmanuel Lévinas: «Il rapporto dell’individuo con la totalità che è il pensiero […] presuppone che la totalità si manifesti non come ambiente che sfiora in qualche modo la pelle del vivente come elemento nel quale è immerso, ma come un volto nel quale l’essere è di fronte a me» (L’io e la totalità, 1954).

Partecipazione e separazione allo stesso tempo al momento dello scatto, il volto come vettore del rapporto tra l’io e la totalità. È ciò che accade nel 1972 con la performance di Cesare Tacchi a porte chiuse nello studio della fotografa. L’artista fa riemergere la propria immagine attraverso un vetro dipinto facendosi schermo solo di una lastra trasparente, evocando la celebre Cancellazione d’artista del 1968 da Plinio De Martiis. Dal lavoro con la Catalano nascono due opere: Autoritratto, Tacchi che sorregge un vetro come fosse un quadro e Painting la riapparizione dell’artista attraverso la cancellazione rivissuta a ritroso in una sequenza di ventiquattro scatti. Se in Autoritratto è il volto di Tacchi a innescare quella dialettica tra io e totalità – «Il rapporto dell’io con la totalità è un rapporto con gli esseri umani di cui riconosco il volto» per Lévinas – adempiendo così al talento della Catalano di grande fotografa di primi piani poiché è principalmente nel volto che dimora l’io, altrettanta importanza è data al corpo in Painting.

Il corpo è la materia prima dell’arte e il complice dell’atto performativo che trasforma l’azione di Tacchi in un gesto iconico. L’iconicità è d’altronde l’altro grande valore aggiunto della Catalano all’opera del performer come dimostrano magistralmente tutte le collaborazioni con Fabio Mauri: da Ebrea del 1971 a Ideologia e Natura del 1973 dove lo scatto della fotografa diventa il senso estetico dell’opera stessa, così come in Europa bombardata (1978) in cui la modella Danka Schröder, personificazione della Giovane Germania, rimane insieme all’immagine di Ideologia e Natura, icona di tutta la grande opera performativa di Mauri.

Info:

www.archivioelisabettacatalano.it

Elisabetta Catalano, Cesare Tacchi, Painting, 1972 courtesy Archivio Elisabetta Catalano

Elisabetta Catalano, Joseph Beuys, Scultura invisibile, 1973, copyright Elisabetta Catalano


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