Gregorio Botta. A cosa aspira l’acqua

Nell’esergo de “La Terra Desolata” Thomas Eliot cita un frammento del Satyricon di Petronio che recita: “Sibilla che cosa desideri? Spero di scomparire.” La Sibilla in questione è la profetessa cumana celebre per i suoi oracoli enigmatici che Apollo condannò a invecchiare senza mai morire: consumata e rinsecchita come una cicala, viveva la sua eterna agonia nel tempio del dio chiusa in un’ampolla. Anche il destino dell’acqua, protagonista della personale di Gregorio Botta (Napoli, 1953) in corso alla galleria Studio G7, è quello di evaporare per dissolversi nel ciclo della vita lasciando traccia di sé in un vuoto apparente che in realtà ne implica la presenza come rifrazione, miraggio o linfa.

La poetica dell’artista napoletano si incentra da anni sull’esplorazione del sottile confine che separa pieno e vuoto, intesi come dialettica tra presenza e assenza, mediante il progressivo alleggerimento materico dei suoi lavori in una continua rinegoziazione dell’equilibrio tra l’individuazione di un livello minimo della percezione e l’efficacia suggestiva e simbolica dell’opera. Le sue sculture evocano lo scorrere di un tempo imperturbabile restituito come entità originaria non quantificabile e definibile secondo i parametri della finitezza umana e nascono dall’accostamento di materiali naturali e artificiali intenzionalmente poveri. Cera, ferro, lino, cotone, piombo e vetro sono materie basilari con un forte richiamo antropologico dovuto alla loro secolare sedimentazione nella nostra storia artigianale e per questo ci appartengono profondamente come l’acqua di cui siamo in gran parte costituiti. Anche dal punto di vista formale e compositivo le sculture di Botta esprimono la stessa essenzialità: i piani si incontrano tra loro con pacatezza, i volumi si mimetizzano con le superfici e scorrono paralleli inglobando intercapedini di vuoto trasparente mentre il contorno netto delle ombre che generano ne amplifica la proiezione tridimensionale. Il colore (terra verde di Nicosia, rosso Pompei e ocra) rarefatto, antico e granulare è una superficie dolcemente irregolare che si aggiunge alla composizione come materiale impercettibilmente scultoreo sostanziando e nutrendo l’eterea presenza dei piani vitrei o di tonalità neutra. Proprio la localizzata comparsa del colore, che di volta in volta traspare da una garza diafana, si incunea nella piega di un tessuto evidenziandone l’orografia o si stratifica in superficie come epidermide, allerta la percezione che solo tramite un’attenzione prolungata riesce a cogliere la rete di riflessi, riverberi e rifrazioni che costituisce la più intima essenza dell’opera.

L’idea di impronta e velatura nella poetica di Botta è strettamente legata alla sua visione dell’arte e dell’esistenza: se lo sguardo non può mai afferrare pienamente l’oggetto su cui si concentra ma si limita a una presa di coscienza intermedia tra ciò che sembra e ciò che si sa esserci, anche la vita è un mistero impossibile da definire che l’uomo può solamente amare ed evocare per non farlo svanire. Così, ad esempio, l’oro, il rosso e la protuberanza di cera che interagiscono con le lastre di vetro della serie “Senza Titolo” (2016-2017) si percepiscono guardando l’opera lateralmente o in trasparenza ma non si sa esattamente cosa siano. La loro indecidibilità diventa quindi metafora dell’imperfetta consapevolezza concessa all’uomo, intesa come ciò che traspare dalla coscienza che oltre il visibile c’è dell’altro, e della funzione mediatrice dell’arte che permette di entrare in relazione con ciò che non si è e che non si può definire mantenendone intatta la complessità.

Come gli antichi Botta si ispira alla natura depositaria degli arcani equilibri che regolano il ciclo vitale e da qui nasce la volontà di sottrazione e alleggerimento materico che caratterizza i suoi più recenti lavori. L’idea è offrire uno scenario per la spontanea manifestazione di un’immagine sollecitata con il minor sforzo possibile: vetro, luce e acqua creano un disegno sempre mutevole ma non per questo meno reale. Anche l’immagine si nutre di tempo e di cure, come le coppe in vetro dell’installazione “A cosa aspira l’acqua” (2017) che devono essere costantemente riempite per riequilibrare la fisiologica evaporazione del loro contenuto, con una pratica meditativa che assomiglia a un atto d’offerta a qualche sconosciuta divinità laica. La contemplazione ritorna nelle piccole case realizzate con materiali diversi in cui Botta rievoca in accezione contemporanea i larari romani, le edicole destinate al culto degli antenati protettori della casa di famiglia. Al centro di questi spazi sacri senza contenuti scorrono l’acqua e la vita, ma l’accesso è interdetto e lo sguardo si può solo insinuare in uno stretto pertugio per intuirne la presenza.

Rifiutando la freddezza di una predisposizione totalmente mentale che l’essenzialità dei suoi lavori potrebbe immediatamente far supporre, il minimalismo organico e poetico di Botta riesce a coniugare la percezione e la materializzazione del vuoto con la fisicità dell’opera che rimane sempre un corpo orgoglioso delle proprie imperfezioni e del lavoro manuale dell’artista che le plasma con attrezzi artigianali.

Gregorio Botta. A cosa aspira l’acqua.
18 febbraio- 8 aprile 2017
Galleria Studio G7
Via Val D’Aposa 4/A Bologna

Gregorio Botta, “A cosa aspira l’acqua”, 2017, vetro e acqua, installazione di n. 16 elementi, dimensioni variabili (particolare dell’opera), courtesy Studio G7

Gregorio Botta, “Senza Titolo”, 2016-2017, tecnica mista su lastra di vetro, cm 30×20,5, courtesy Studio G7

Gregorio Botta, “Senza Titolo”, 2016-2017, tecnica mista su lastra di vetro, cm 30×20,5, courtesy Studio G7


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