June Crespo. Acts of pulse

Il corpo inteso come campo di tensioni e scandagliato nelle sue declinazioni più viscerali, tecnomorfe, aliene e incontrollabili è stato il grande protagonista della selezione operata da Cecilia Alemani nella mostra Il latte dei sogni da lei curata nell’ambito della 59ª edizione della Biennale Arti Visive di Venezia, da poco conclusasi con uno straordinario successo di pubblico. La rassegna ha reso evidente come, soprattutto in ambito scultoreo, diverse artiste recentemente affacciatisi alla soglia del mid-career siano accomunate proprio da un’affinità elettiva fondata sul fatto di far scaturire le loro ricerche sulle manipolazioni della forma dalla creazione/distruzione di ipotetici corpi ibridi. Corpi di volta in volta disossati, elastici, fluidi e contraddittori, ma sempre misteriosamente integri, mettono in discussione il concetto di struttura immaginando nuove relazioni tra materiali e suggestioni apparentemente incoerenti.

Tra le più rappresentative esponenti di questa sensibilità si colloca a pieno titolo June Crespo (1982, Pamplona), presente all’Esposizione Internazionale d’Arte con tre opere della serie Helmets (2019-2022), enigmatiche combinazioni scultoree allusive a torsi smembrati che incorporano materiali industriali, indumenti e oggetti simbolici. L’artista spagnola è ora protagonista della mostra Acts of pulse alla galleria P420 di Bologna, che già nel 2018 aveva iniziato a interessarsi del suo lavoro, a ulteriore riprova dell’intuito di Alessandro Pasotti e Fabrizio Padovani per ciò che è significativo prima che sia equanimemente riconosciuto.

La pratica di June Crespo è incentrata sull’accorpamento di materiali e oggetti ordinari e sulla loro rilettura plastica in assemblaggi allusivi a una corporeità distopica ma allo stesso tempo teneramente sensibile, interpretabile come un riflesso della nostra esperienza contemporanea di creature cibernetiche composite. Utilizzando fibra di vetro, stoffa sintetica, resina, ceramica, bronzo e tondini, l’artista amputa, smembra, dilata e riorganizza elementi esistenti per generare nuove forme intuitive che si offrono allo sguardo dello spettatore suscitando in lui desiderio di addentrarsi nei loro anfratti e di auscultarne le impercettibili pulsazioni.

Alcune sculture incorporano prelievi diretti dal reale o calchi riconoscibili, configurandosi come ammassi di busti e arti di manichini in cemento, pile di indumenti o radiatori in ghisa, mentre altre privilegiano una dimensione più informe e astratta. Ogni sua opera evoca un corpo inglobato in una corazza architettonica di natura ambigua tra la protezione e la costrizione, una struttura così connaturata con l’essenza dell’organismo che in essa si abbozza da sembrare una sua emanazione. Le installazioni di Crespo in spazi ampi, come il sontuoso white cube della galleria P420, materializzano paesaggi mentali rarefatti ma trasudanti di umori, in cui lo spazio è misurato dalle silenziose interazioni tra corpi appartenenti a un’unica super specie inorganica.

Nella prima sala si danno appuntamento alle pareti delle carcasse bronzee che subito immaginiamo abbiano inglobato e disintegrato gli organismi animali o vegetali di cui hanno assunto le sembianze in negativo. Nella scultura di June Crespo gli elementi molli (replicati con la tecnica del calco o allusi per analogia) vengono fossilizzati da colate bronzee, come in questo caso, o di altri materiali “freddi” come il cemento o il gesso. Ma, anziché trasformarsi nel loro contrario come ci si potrebbe aspettare, acquisiscono nuova vitalità e duttilità grazie al calore erogato da tessuti tecnici colorati posizionati negli interstizi tra esterno e interno delle strutture. Questi teli sintetici, originariamente progettati per trattenere un calore esistente senza disperderlo, sembrano attivare una sorta di isolamento termico inverso e farsi diffusori di un tepore che protegge come un sacco amniotico le reminiscenze biologiche di questi brandelli di creatura e coinvolge chi si avvicina nella medesima atmosfera protetta. L’osmosi con lo spazio circostante è assicurata da un sistema di condutture integrato che ha il suo aspetto più capillare nelle spine di colata (attraverso cui il metallo liquido è versato nello stampo) ancora attaccate ai bordi delle sculture e quello più scenografico nelle colonne di acciaio, vetroresina e poliestere che arrivano al soffitto della galleria. I versamenti energetici, in cui la linfa artificiale dei materiali trapassa misteriosamente nell’evocazione di una matrice organica espansa, sono uno dei temi portanti della poetica dell’artista, che interpreta tali processi di scambio in senso architettonico e senziente.

La pulsazione evocata dal titolo della mostra sottolinea la componente involontaria e istintiva del movimento sotterraneo che anima le forme, come se la loro ri-generazione fosse la naturale conseguenza degli accostamenti materici e poetici innescati dall’artista. Nella seconda sala quest’aspetto si dispiega con una valenza quasi mitopoietica in una coerente orchestrazione ambientale in cui tutto ha origine dalla ripetizione e duplicazione di una sella di cavallo e dall’amplificazione del suo ritmo ondulatorio. Le relazioni di reciproco posizionamento tra le sculture e le loro affinità strutturali e materiche scandiscono metricamente lo spazio suggerendo a chi vi accede l’idea di trovarsi all’interno di una sorta di corpo-tempio dislocato su più dimensioni e incapsulato in un’immaginaria era post-archeologica popolata da reperti in cui il passato e il futuro non si distinguono più.

Ma questi ritrovamenti a prima vista inanimati, se osservati a distanza ravvicinata, sembrano piuttosto rimandare a spazi domestici e intimi a causa del loro aspetto usurato e fragile e per l’incorporazione di stoffe che esibiscono un’impronta umana o una connessione funzionale con le necessità corporee. E la pratica scultorea di June Crespo nasce proprio da qui, da un’irresistibile inclinazione a inseguire quell’attimo inafferrabile in cui scaturisce la prima scintilla vitale che separa la creatura dalla disorganizzazione indifferenziata. Come rileva il testo critico di Marinella Paderni, che ci fa piacere citare in chiusura, nell’universo di cui l’artista si fa tramite «la forma di un petalo è anche la linea della lingua che spinge contro il palato curvandosi, esattamente come la curva di una sella da equitazione disegna uno spazio inedito e anche un vuoto. La realtà fisica del mondo si dispiega in figure correlate tra loro, un disegno superiore in potenza, mai definitivo, che mostra sia l’infinitudine che la finitudine delle cose».

For all the images: June Crespo, Acts of pulse, 2022, installation view, photo Carlo Favero, courtesy P420, Bologna

Info:

June Crespo. Acts of pulse
26/11/2022 – 5/02/2023
P.420


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