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La filosofia postmodernista dell’arte: Equilibrium by Jeff Koons

È il 1985 e siamo a New York. L’artista ed ex broker di Wall Street, Jeff Koons organizza una mostra nella galleria International With Monuments intitolata Equilibrium. Arte contemporanea, oggetti ‘banali’. Il kitsch. La mostra propone un linguaggio artistico, in parte inedito, ansioso di rispondere ai gusti della nuova cultura di massa. Palloni da basket sospesi in un vuoto apparente dentro a grandi acquari, perfetti nella loro immobilità o immobili nella loro perfezione; grandi apparecchiature subacquee e attrezzature da salvataggio fanno compagnia a un gommone senza mare; sembrano oggetti veri ma sono di bronzo e pesantissimi.

Qui in mezzo, tra oggetti ‘banali’, espone — senza apportare modifiche — alcuni poster, incorniciati e appesi a parete, ritratti pubblicitari di alti basket-players afroamericani che vestono con muta regalità ciò che sponsorizzano: abbigliamento sportivo firmato Nike. Il tema dominante è quello del basket, “simbolo per eccellenza dello sport ideale statunitense e (unica) via d’accesso alla fama e alla ricchezza per l’atleta etnico”[1]. Unico riscatto possibile. Non sono solamente muti testimoni di contraddittorie politiche pubblicitarie ma appaiono come nuovi totem di una potente e impietosa cultura di massa. Queste opere o semplici poster pubblicitari, a seconda di come li si voglia vedere, sono filosofia allo stato puro e racchiudono un concetto d’arte inedito e rivoluzionario portato avanti dall’artista.

Si andava diffondendo, proprio negli anni ’80, una nuova fiducia e consapevolezza nei metodi di indagine e ricerca antropologica sugli aspetti socioculturali dell’era postmoderna e sui rapporti tra esseri umani ‘diversi’ costretti a convivere, che lo volessero o meno, a stretto contatto nel mondo multiculturale e multietnico dei nuovi contesti urbani. La rivolta delle Township sudafricane del 1985, le ‘guerre etniche’ scoppiate nei quartieri neri di Detroit e Chicago nel medesimo anno, il conservatorismo della presidenza Ronald Reagan e la novità degli studi socio-antropologici di cui sopra, diventano terreno fertile per l’ideazione di Equilibrium. Jeff Koons trasla questi manifesti in un contesto e in un ambiente che sono quelli propri dell’Arte intesa in senso tradizionale. La mossa è geniale.

Li decontestualizza, ne isola la funzione pratica iniziale, appendendoli a parete, come un qualsiasi dipinto, eco di un’antica tradizione ritrattistica cara a certo tipo di arte elitaria, facendone così delle immagini ‘banali e immediate’ da contemplare e su cui riflettere fino alla trasmutazione in iperreali sovrapposizioni iconiche di loro stesse. Un’ operazione complessa ma vincente. Con una sola manovra, l’artista kitsch è riuscito nel suo intento: ‘deridere’ l’idolatria contemporanea per i miti dello sport, facendo, al contrario, risaltare l’aspetto più amaro e contradditorio delle immagini. Gli invincibili idoli sportivi degli americani sono gli stessi afroamericani, tanto perseguitati e ghettizzati dalla politica reaganiana; sono i bersagli facili del clima segregazionista dell’Apartheid sudafricano e sono i protetti di Nelson Mandela.

Sono i reietti che la stessa società americana, paradossalmente, canonizza, rendendoli status symbol. Sono le voci soffocate che devono far buon viso a cattivo gioco nel sistema marcio dell’industria culturale pubblicitaria tardo capitalista che sfrutta, irretisce e manovra la massa addomesticata verso un tacito consenso e sono indicatori di messaggi socioculturali e politici ben precisi. Ritratti che mal celano una dietrologia razzista (nell’ironia delle pose, nell’abbigliamento e nei contesti familiari ma stranianti posti sullo sfondo) tanto da essere acquistati e mostrati per ciò che sono: una presa in giro. Ecco dove Koons affascina, rivelando la sua tempra rivoluzionaria e tagliente che attacca il sistema, partendo dalle logiche più interne, avvalendosi delle regole per poi scavalcarle impietosamente.

Del resto, cifra essenziale del postmodernismo è proprio la negazione dei macro-saperi onnicomprensivi e legittimati, delle etichette sociali, e un rifiuto nei confronti di tutto ciò che si presenta come verità assoluta. Sono tempi in cui è possibile credere a tutto e cercare, trovandole, più verità in una medesima circostanza proprio perché la realtà non è una ma tante, che, a loro volta, hanno innumerevoli volti. Koons ha portato avanti la sua operazione contra sistema, esprimendosi attraverso la leggerezza delle forme banali del quotidiano e del kitsch, servendosi di un linguaggio immediato (e non più aulico) tanto da diventare familiare al grande pubblico. È, come si diceva all’inizio, filosofia dell’arte prima ancora che operazione artistica.

Se per il filosofo Herbert Marcuse, nella sua ‘Società a una dimensione’, le minoranze etniche, i reietti, gli ultimi, mancano di coscienza di classe tanto da farsi dominare dal sistema attraverso una repressione non violenta ma permissiva e abile nella persuasione occulta[2], nel mondo ‘banale’ dell’artista businessman avviene il contrario: i reietti sono inglobati nel sistema per smontarlo, tacitamente, dall’interno e quindi hanno una possibilità di riscatto sociale. È la voce dell’arte che è sicuramente anche voce storica, politica, culturale.

Questi poster sono il veicolo delle grandi manovre di un uomo, di una classe sociale, di tante voci diverse che, muovendosi in maniera del tutto differente, hanno compreso, inglobato e riproposto un messaggio chiave: l’ingresso nella società policulturale pronosticata dal sociologo Bauman dove non vi sono più frontiere ma confini aperti a tutti, a mondi e culture diversissime, a esseri umani estranei tra loro che, proprio grazie a quest’apertura, ottengono di fatto il diritto di rimanere estranei ma anche di far sentire la propria voce e di esprimere liberamente la propria cultura che ha la medesima dignità di qualsiasi altra. Il messaggio filosofico di Koons e il mondo anni ’80 da cui è scaturito, ci ha preparati alla globalizzazione, alle infinite possibilità della vita e dell’arte e, forse, anche a un tanto atteso egualitarismo sociale e politico.

Arianna Olivari

Info:

www.jeffkoons.com

[1] AA.VV, Jeff Koons. Retrospettivamente, 2007, p. 47

[2] Enzo Ruffaldi, Piero Carelli, Ubaldo Nicola, Gian Paolo Terravecchia, Andrea Sani, Il Pensiero Plurale, 2008, p. 574

• Three Ball 50/50 Tank (Spalding Dr. JK Silver Series), 1985, vetro, acciaio, acqua distillate, tre palloni da basket, 153,7 x 123,8 x 33,7 cmJeff Koons, Three Ball 50/50 Tank (Spalding Dr. JK Silver Series), 1985, vetro, acciaio, acqua distillate, tre palloni da basket, 153,7 x 123,8 x 33,7 cm, courtesy MoMA New York

Jeff Koons, Lifeboat, 1985, bronze, 38.7 × 155.6 × 235 cm. Collection Museum of Contemporary Art Chicago, Gerald S. Elliott Collection, 1995.56. Photo: Nathan Keay, © MCA Chicago

Jeff Koons, Mychal, 1985, framed Nike poster, 116,2 x 78,7 cm. Edition of 2 © Jeff Koons


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