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La pratica del πολιτικῶς ξῆν presso Galleria Studi...

La pratica del πολιτικῶς ξῆν presso Galleria Studio G7

«In ogni azione, oltre ciò che si fa, conta l’intenzione, il perché la si fa», dice Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni specchio. Uno scambio responsabile. Dare e ricevere. Restituire allo spazio, all’uomo, all’Universo. Il medico col paziente, la verdura con l’agricoltore, il pianista col pianoforte. Secondo la pubblicazione Psychosomatic Medicine: Journal of Biobehavioral Medicine, l’attività neuronale è molto più dinamica quando vi è cura dell’altro. A livello neurobiologico siamo predisposti all’altruismo. Un’empatia presociale, una sorta di giudizio kantiano a priori, disinteressato.

Space as a duty of care, installation view, courtesy degli artisti e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Francesco Rucci

Galleria Studio G7 ospita Space as a duty of care, a cura di Daniele Capra. La mostra presenta opere di Simon Callery, Anneke Eussen, Jacopo Mazzonelli, Goran Petercol e Silvia Stefani. Cinque figure, consapevoli, si prendono la responsabilità dello spazio ospitante, entrandoci quasi in punta di piedi. Non solo, la responsabilità ricade anche per chi s’immergerà nello spazio stesso, già contaminato dalle opere degli artisti, purché sia nel rispetto dell’altro e viceversa. L’oggetto assume, così, una posizione e una rivendicazione di empatia, nonché l’avvedutezza da parte di terzi. Duty of care è una delle leggi della common law anglosassone e prevede il rispetto degli oggetti, dello spazio, della comunità e della storia che vi costituisce il macro-mondo. Il tutto è racchiuso nello spazio come playground della stessa legge, seppur istintiva e naturale.

Space as a duty of care, installation view, courtesy degli artisti e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Francesco Rucci

La ricerca artistica di Simon Callery, rappresentata dall’opera Foot-Neck Wallspine, parte dalla pittura paesaggistica, dal medium di una tela o tavola per tradurre la veduta come un corpo fisico, materico, presente nello spazio. L’opera è visibile dall’interno all’esterno e viceversa. L’occhio può scorrere i filamenti, infilarsi fra un vuoto e un pieno; talvolta con l’olfatto, sentire l’effluvio della tempera col legante d’uovo, tecnica cara a Cennino Cennini e che ci riporta ai grandi maestri fiamminghi. Non stiamo guardando la natura: Callery ci dà la possibilità di essere nella natura nella sua elementarità necessaria.

Anneke Eussen, There is no going back, 2020, marmo di recupero, fili neri e chiodi, 135 x 120 cm. Courtesy dell’artista e di Tatjana Pieters, Gent. Foto A. Eussen

Per introdurvi l’attività di Anneke Eussen, cito una delle frasi più incisive mai lette nella mia esperienza: «Animum debes mutare, non caelum», di Seneca. L’artista cambia il destino di ciò che tocca. Ogni materiale recuperato acquista un nuovo intento e ne indirizza, al contempo, il processo artistico. È il caso di There’s no going back, blocchi di marmo recuperati dalla libreria statale di Berlino. Ogni blocco ha un suo particolare taglio che, venendo in contatto coi restanti blocchi recuperati e disposti strategicamente dall’artista, formano un’onda sospesa da funi nere e chiodi. Non vi è ritorno, poiché il fisico raggiunge il suo più alto intento, nella sua finalità minimalista.

Jacopo Mazzonelli, Etude, 2023, martelletti di pianoforte, dimensioni variabili. Courtesy l’artista e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Francesco Rucci

Jacopo Mazzonelli gioca, invece, con ciò che riempie lo spazio. Si potrebbe trattare di silenzio, tensione, azoto, ossigeno, anidride carbonica. Elementi che compongono la sua opera, il suo Étude. Ci troviamo di fronte a martelletti di pianoforte, ciascuno di loro si manifesta in misura variabile. Stiamo seguendo una melodia centrica, possiamo sentirla solo con il nostro occhio. L’ossimorico silenzio assordante ce ne fa percepire l’assenza, eppure si rimane consapevoli di stare guardando una composizione musicale, come se, tutto d’un tratto, potessimo sentire. Una lezione di solfeggio, con tanto di movimento leggiadro del polso a due quarti, ma non ne vediamo le note, rimanendo, così, un flusso segreto, onirico, in divenire.

Space as a duty of care, installation view, courtesy degli artisti e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Francesco Rucci

La semiologia artistica di Goran Petercol si basa sulla ricerca del significato nel segno, come rapporto fra ciò che è presente a ciò che è assente. Una langue condivisa, per intenderla alla Ferdinand de Saussure. L’opera in esame è Completed with the first, che si limita all’indispensabile visivo, poiché rimanda al campo del segno assente, dando una prospettiva ampia e personale. L’oggetto ha un suo linguaggio, e in relazione ad altri oggetti, comunicano per segno. Petercol, così, lascia che siano i giusti accostamenti sintetici a far sentire il proprio fonema. A tal proposito, consideriamo il πολιτικῶς ξῆν, vivere socialmente e politicamente, dunque in relazione all’altro. Ripercorrendo il pensiero aristotelico fino a Ugo Grozio, si afferma che l’individuo, per natura, sia portato a vivere in società razionalmente organizzata. Questo, però, non può escludere l’individualità e la peculiarità, che entrano in contatto con altrettante singolarità dell’altro. È comprensibile il difficile rapporto, talvolta fragile, tra uomo e uomo.

Silvia Stefani, Alzarsi o cadere, 2015, cavalletto in legno, pittura acrilica, 75 x 70x 65 cm, courtesy dell’artista. Foto Nico Covre

Silvia Stefani trasmuta le composizioni materiche, estraendole dal possibile teleologico, rendendo visibile il complesso rapporto umano via materia. Alzarsi o cadere non può che coinvolgerci empaticamente, come se fossimo pronti a interagire con l’opera, raddrizzarla, e qualora dovesse cadere, saremmo pronti al supporto in quanto sia noi, che l’opera, diveniamo interazione. Uscire dallo spazio Galleria Studio G7, accende una flebile speranza.

Info:

Simon Callery, Anneke Eussen, Jacopo Mazzonelli, Goran Petercol e Silvia Stefani, Space as a duty of care
20/04/2023 – 20/09/2023
Galleria Studio G7
www.galleriastudiog7.it


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