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Predator: la bellezza del frammento. In conversazi...

Predator: la bellezza del frammento. In conversazione con Caterina Notte

Ridiscutere l’intimità è argomento già dibattuto negli approfondimenti culturali e antropologici contemporanei, la cui urgenza si è acuita nel trascorso anno solare, limitata com’è la dialettica fisica con l’alterità. La diluizione temporale subita dal corpo in una fase di attesa coatta porta a destabilizzare la percezione perché vengono meno i canoni abituali, siano di natura estetica, siano di natura gnoseologica. Puntuale e soddisfacente, la ricerca di Caterina Notte denominata Predator solleva l’interessante questione della necessità di ripensare e riprodurre il corpo femminile estirpandolo dalla retorica del ruolo sociale e dell’avvenenza formale, privilegiando l’Essere nel suo carattere in divenire, pur con un’accezione umanista.

Luca Sposato: Trovo curiosa ed interessante l’ecletticità della tua formazione, che dalla Facoltà di Architettura passa per Economia e Commercio per approdare alla fotografia.
Caterina Notte: In verità mi è sempre piaciuto molto disegnare, pratica che ho continuato quando mi sono iscritta alla facoltà di Architettura a Roma; tuttavia neanche quella dimensione mi andava molto a genio, così, con molta casualità, mi sono avvicinata alle letture e al mondo socio-economico. Studiare mi è sempre interessato, inoltre è proprio negli ambienti universitari che ho scoperto le potenzialità espressive del digitale e degli scanners: uno dei miei primi lavori, Genetics, consisteva nello scannerizzare parti del mio corpo e rielaborarle, creando dei “cloni” di me stessa. Poi l’approccio alla fotografia “pura” è stato naturale, preferendo sempre il digitale all’analogico, più immediato, più simile a me. Però la mia non è un’indagine introspettiva, partivo dal mio corpo perché era l’unico a disposizione, immediato. In seguito è stato naturale cercare anche un’altra dimensione visuale, una realtà aumentata che implica sia l’uso della tecnologia e sia l’uso del corpo. Successivamente mi sono perfezionata frequentando un corso alla Fondazione Ratti tenuto dall’artista Alfredo Jaar: è stata un’esperienza determinante per comprendere la responsabilità civile dell’artista, la necessità di incidere la realtà, scardinarla, andando oltre il semplice “fare” arte.

Prendendo spunto da questa ricerca, Genetics, mi sembra emerga un elemento costante nella tua fotografia: il frammento. Ricomporre per ricreare mantenendo costante l’idea compositiva di una sineddoche, la parte per il tutto, evoca una volontà di bellezza quasi perduta, per non dire quasi anacronistica, in un’epoca così neopositivista. Considerando la bellezza come una “deformazione”, un’energia dinamica, psico-formale, trovavo nel tuo linguaggio un discorso non lontano dalle ricerche di Francis Bacon, inteso nell’intenzione di rompere i canoni tradizionali per restituirli in una nuova Coscienza.
Vorrei proprio riscrivere la Bellezza, il concetto di Bellezza: i canoni estetici sono cambiati, è indubbio, e non vedo perché nel mondo dell’arte non si debba più parlare di bellezza, lasciando l’uso e l’abuso del termine al campo della Moda, per esempio. Ovviamente non intendo parlare di “perfezione”, anche se non sopporto la retorica del “difetto” che circola ultimamente, specialmente nei riguardi dell’estetica femminile, per cui una donna deve essere “brutta”, soffrire, deturparsi il corpo, parlare dell’effimero … vorrei si tornasse a parlare di autenticità. Ad esempio, ultimamente è tornata la moda del readymade, e e certi artisti spesso espongono senza metodo, senza studio. È diventato così semplice fare Arte Sociale! Ovviamente il messaggio che mi ha trasmesso Jaar non è questo, non ha senso spettacolarizzare l’attualità, devi sempre assorbire il contesto, scardinarlo, per poi lasciare un segno. Certamente, non tutto sarà attuabile, però anche solo far scattare la possibilità di una nuova direzione, quello sì. Secondo me il compito dell’Arte è quello. Così come hanno sempre fatto nel passato.

Apprezzo che parli di “segno”, soprattutto in relazione alla fotografia, perché non è scontato, data la volatilità del medium, il suo essere effimero, realizzare la sua natura semantica davvero tagliente e la sua immediatezza nell’essere in ogni dove. La fotografia come soggetto-oggetto comunicante, relazionale e significante mi evoca i lavori di Suzanne Lacy, in particolare le prime esperienze degli anni Settanta: la dualità tra Essere individuale ed Essere sociale, nonché il forte accento fisiognomico, sono caratteri associabili al tuo ultimo lavoro, Predator, dove il Punctum della garza potrebbe suggere a sintesi dell’ineluttabile condizione di essere connessi, rizomatici.
Per me la fotografia è assolutamente performativa, l’arte deve “performare” il reale. Non mi interessa molto la fotografia documentaristica, che rimane come registrazione di un fatto, ma che la fotografia sia l’oggetto finale, in tutta la sua importanza, e lasciare questo segno. È importante dare alla fotografia il suo giusto valore, di quanto possa essere potente, come un’installazione, come un intervento site-specific. Sulla connessione sono d’accordo, oggi non ha più senso parlare di “virtuale”, come dice Luciano Floridi oggi siamo OnLife, fa parte della nostra realtà, non c’è più distinzione. Quindi un’arte “partecipativa” è un’arte che ingloba il sociale, il virtuale: mi piace il fatto che tramite i social, nasce proprio una nuova fisionomia, un modo di comunicare, un modo di pensare. Nella serie Predator le garze, le bende e anche le corde con i nodi cappuccini sono proprio i legami che noi abbiamo con il nostro passato, il nostro presente e anche il nostro futuro. Sono legami e sono anche limiti, sia corporali, del soggetto, sia limiti del mondo esterno. Per me rappresentano tutto questo, sono limiti che ti tengono legata, magari ti danno anche staticità, però ti potrebbero anche bloccare: è la consapevolezza che ci sono questi legami, questi limiti, a consentirti di liberartene, di andare avanti senza, se lo desideri. Le garze non chiudono, non coprono mai gli occhi, le mani, la bocca, ovvero i punti di non-ritorno del nostro corpo, attraverso i quali noi riusciamo a comunicare, a essere noi stessi. Quindi permettono di far fuoriuscire la tua potenza innata come essere umano. Le corde con i nodi, inoltre, erano i rosari francescani che si usavano nel Molise nel primo anno di vita del bambino passando l’intero anno con questa corda: ho individuato questi legami che avevo con il mio passato e sto cercando di riprodurli nella fotografia da una nuova prospettiva.

Quindi persino la tua biografia, la tua persona, entra nel tuo scatto? Insisto un momento sulla dualità dell’Essere, perché trovo molto interessante questa sorta di doppio ruolo che riveste l’autore della fotografia, manifestandosi sia dietro la macchina e sia al di là della macchina, nel soggetto. Anzi, autore e soggetto dello scatto si fondono e si intrecciano empaticamente con lo spettatore! La plasticità intuibile nella tua opera, quel venir fuori, è sintomatica volontà di Essere Fotografia, eppure la tua Autorialità di artista non invade mai il lavoro. Aggiungo una certa efficacia nelle immagini, si avverte una certa “primitività” in questi corpi, una crudezza. Entrando nel tema, dipende tutto dalla fragilità, dalla condizione funambolica in cui queste donne si trovano, in un vortice di memorie, ritorno alle origini, ripresa del sacro.
Sì, hai capito benissimo: sto facendo praticamente un viaggio a ritroso personale, ma che può e deve diventare universale, di chiunque altro. Un ritorno alle origini consapevole, e da lì puoi ripartire perfettamente. Un viaggio all’indietro, sia nella memoria, sia nell’esperienza. La mia fotografia è performativa perché pretende esattamente questo dalle donne che ritraggo, loro devono fare esattamente quello che farei io: a volte capita di vivere uno o due giorni interi insieme, in modo che quando iniziamo lo shooting, acquistiamo empatia. Quindi sono libere. Grazie al percorso che ho fatto, io mi sono liberata molto presto di tutte le sfaccettature “femminili”, perciò mi sento così libera da riuscire a fotografare un’altra donna in tutta la sua potenza. Anzi, più una donna è bella o piena di difetti, più, per me, è perfetta. L’obiettivo è dare una visione perfetta del soggetto che rappresento, non c’è niente di me che può andarlo ad affievolire, a indebolirlo, voglio proprio dare Potenza al corpo della donna in quanto essere umano, parte della specie. Quindi cerco di essere il più asettica possibile, ma allo stesso tempo devo trasmettere tutta la sessualità dell’Essere donna, perché la donna, a differenza dell’uomo, ha dentro questa sessualità definitiva: è da lì che nasce tutta la potenza. Sulla fragilità penso sia un concetto assodato; la Potenza dell’essere umano sta nella sua debolezza, nell’accettarla affrontando l’abbandono: nel momento in cui tu ti abbandoni e capisci quanto sei fragile, è lì che cominci a essere forte. È lo stesso discorso del Ritorno alle Origini. Il mio lavoro è una riscrittura della fragilità, della bellezza, in vista di tutta la potenza che può essere. Come un atomo che libera tutta la sua energia, una volta che scopri la tua fragilità non puoi che essere forte. E questo fa paura anche, no?

Colgo quest’ultima postilla sulla paura per condividere una suggestione cinematografica. I tuoi soggetti, con le bende che permettono di vedere solo gli occhi e non il volto, hanno un retaggio da film dell’orrore (Occhi senza volto di Georges Franju, La pelle che abito di Pedro Almodóvar, Goodnight Mommy di Veronika Franz e Severin Fiala) che non c’entrano nulla con il tuo percorso, sennonché riflettono il tema della Paura: il disagio di non riconoscersi, dovuto anche all’ambiguità percettiva di sentirsi vittima o carnefice, si riscontra nell’assenza visiva delle parti anatomiche celate, frammenti umani familiari e inammissibili. Parafrasando Jung: «Le nostre fantasie indugiano sempre su una mancanza, là dove c’è una carenza da compensare».
Spesso i miei soggetti stentano a riconoscersi dopo aver visto le foto! La potenza che scaturisce dal soggetto crea disagio e squilibrio nello spettatore, infatti in Predator il soggetto della fotografia che dovrebbe essere, all’apparenza una vittima, in realtà è il predatore e chi guarda diventa automaticamente preda. Ultimamente sto indagando sul momento intenso e delicato del passaggio dal mondo infantile a quello adolescenziale, da cui escono molte paure che riguardano il corpo e il mondo esterno. In questa serie il soggetto si appropria delle proprie paure per trasformarle in qualcosa di utile, in una forza che andrà, spero, a investire lo spettatore.

Un’ultima domanda. Ho visto hai iniziato un progetto sul canale Tik Tok: me ne vuoi parlare?
Il progetto s’intitola Predator Ubiquity. Ho aperto il canale Tik Tok, perché è uno dei social più seguiti, ma soprattutto perché, basandosi sul caricamento di video, è perfetto al mio scopo. Vorrei coinvolgere persone di tutto il mondo che vogliono liberarsi delle proprie bende e mostrare il loro grado di libertà di fronte allo schermo. Quando avrò accumulato un po’ di video, verranno caricati nello stesso momento, in un orario preciso, in modo che tutte le piattaforme siano, nel migliore dei casi, “invase” da Predator, simultaneamente.

Possiamo definirlo un virus?
Esatto, proprio questo! Non a caso è stato concepito durante il lockdown.

Info:

www.caterinanotte.com

Caterina Notte, Genetics X1, Roma, 2001, courtesy the artist

Caterina Notte, Predator #21, Monaco di Baviera, 2019, courtesy the artistCaterina Notte, Predator #21, Monaco di Baviera, 2019, courtesy the artist

Caterina Notte, Predator #71, Porto Cervo, 2020, courtesy the artist

Caterina Notte, Predator #58, Porto Cervo, 2020, courtesy the artist

Caterina Notte, Predator #5, Porto Cervo, 2020, courtesy the artist

Caterina Notte, Predator #101, Porto Cervo, 2020, courtesy the artist

Caterina Notte, Predator #90, Porto Cervo, 2020, courtesy the artist.


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