Vivian Maier. Io sono ciò che vedo

La storia di Vivian Maier, talentuosa fotografa autodidatta che tra gli anni ’50 e ’70 immortalò la società statunitense del boom economico in vivaci scatti di strada, è ancora in gran parte avvolta dal mistero e il suo imponente archivio fotografico, emerso una decina d’anni fa in circostanze fortuite, è un affascinante caso di riscoperta postuma che rinvigorisce il mito romantico dell’artista solitario e incompreso  che affida al destino la sopravvivenza del proprio lavoro.

Vivian nasce a New York nel 1926 da madre francese e padre americano di origine austriaca; in seguito alla separazione dei genitori lei e la madre sono ospiti per qualche tempo di Jeanne Bertrand, fotografa affermata che trasmette alle due donne la sua passione. Dopo qualche anno trascorso in Francia, nel 1951 Vivian, che grazie alla liquidazione di una proprietà che le era stata lasciata in eredità aveva acquistato una fotocamera Rolleiflex professionale, si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Chicago, dove lavora come bambinaia e dedica tutto il suo tempo libero a scattare e sviluppare in una camera oscura amatoriale. Riservata e schiva (nemmeno le famiglie presso cui lavorava e viveva erano a conoscenza del suo segreto artistico), percorre le strade dei quartieri popolari a caccia di atmosfere, dettagli, atteggiamenti e forme che coincidono con la sua personale visione dell’esistenza e che custodisce in casse da viaggio senza mostrarle a nessuno. Con l’avanzare dell’età e il sopravvenire di gravi difficoltà finanziarie, si trasferisce in una casa di cura e i suoi effetti personali, depositati nel box di un magazzino, vengono messi all’asta a causa degli affitti non pagati. Li riscatta in blocco nel 2007 il giovane John Maloof che, folgorato dal sorprendente tesoro iconografico (migliaia di fotografie e centinaia di rullini e negativi ancora da sviluppare) che trova tra un ammasso di oggetti senza valore, inizia a condividere le immagini sui social network e su siti di fotografia e a cercarne l’autrice. Non riuscirà mai a rintracciarla e Vivian muore nel 2009 senza sapere che il box fosse stato espropriato e che il suo lavoro stava girando il mondo e acquisendo sempre più estimatori.

La mostra a Palazzo Pallavicini, curata da Anne Morin e promossa da Pallavicini s.r.l, riunisce 120 scatti in bianco e nero e una sezione di 20 foto a colori realizzate negli anni ’70 quando l’artista sostituì la Rolleiflex con una Leica, molto più leggera e con l’obiettivo all’altezza degli occhi. Il percorso espositivo è diviso in sezioni tematiche che evidenziano la molteplicità dei punti di vista con cui la Maier osservava la vita di strada: infanzia, ritratti, architetture, classi sociali, forme, colori e autoritratti in cui l’artista si rispecchia e si confonde nel paesaggio urbano. Ogni scatto, nel cui stile si possono scorgere echi dell’avanguardia fotografica dell’epoca (da Lisette Model a Diane Ardus, Walker Evans, Andrè Ketèsz e altri artisti dei quali viene spontaneo chiedersi se conoscesse il lavoro), si concentra su un particolare aspetto del visibile per restituire l’istantaneità di un attimo rubato in una composizione equilibrata e originale al tempo stesso. La moltitudine anonima delle strade è per la Maier inesauribile fonte di interesse e bellezza per la sua peculiare attitudine a prestare attenzione ad aspetti solitamente non considerati, in un periodo in cui la street photography era agli albori.

I suoi soggetti privilegiati sono gli esponenti delle classi sociali più basse, di cui riesce a condensare i gesti in scene pittoresche dal taglio cinematografico che non sfociano mai nella caricatura per la profonda comprensione ed empatia con cui l’artista si allinea a ciò che vede. In ogni ruga, smorfia e deformità riesce infatti a leggere e trasmettere la storia di una vita, la lotta per la sopravvivenza, la quotidiana ricerca di felicità di chi deve lavorare duramente per non lasciarsi sopraffare dalle difficoltà. All’estremo opposto si situano gli scatti dedicati all’alta borghesia cittadina, i cui personaggi appaiono come fugaci comparse su auto di lusso che quando si accorgono di essere fotografate reagiscono con antiestetica arroganza all’invasione del suo sguardo. In un limbo intermedio si collocano invece i bambini, identificati come peculiare categoria umana che risponde senza distinzione di classe ai codici comportamentali dell’infanzia, ma anche come comunità parallela di futuri adulti il cui destino si può già prefigurare osservando le analogie fisiognomiche e di contegno che li riconducono alle famiglie di provenienza. Vivian, resa invisibile dall’atteggiamento riservato e dall’aspetto poco appariscente, utilizza la fotografia come modo per relazionarsi con l’esterno e questo per lei significa avvicinarsi a ciò che suscita il suo interesse fino a mimetizzarsi nelle forme e nelle atmosfere che solo il suo sensibile obiettivo riesce a cogliere.

A questo modo anche gli scatti di impronta più astratta e formalista sembrano sempre rispecchiare un suo pensiero o stato d’animo, mentre i frequenti autoritratti che la mostrano riflessa in una vetrina, in una superficie lucida o persino in uno specchio che alcuni facchini stanno scaricando da un furgone, sono per lei una forma di resistenza all’indistinto fluire delle cose e un tentativo di trovare il proprio posto in un mondo rispetto al quale forse si sentiva sempre un po’ estranea. Incurante del trascorrere del tempo e delle mode, Vivian continua a guardare in camera con lo stesso sguardo impenetrabile ed enigmatico, facendo intuire come la solitudine fosse una scelta e rivelando l’indipendenza, tutt’altro che scontata in quegli anni, di una donna capace di trovare il proprio centro in se stessa e nella sua grande passione.

Info:

Vivian Maier
a cura di Anne Morin
Palazzo Pallavicini
Via San Felice 24 Bologna
3 marzo – 27 maggio 2018

Vivian Maier, Self-portrait, undated, copyright Vivian Maier Maloof Collection

Vivian Maier, July 1957, Chicago Suburb, copyright Vivian Maier Maloof Collection

Vivian Maier, March 1954, New York, copyright Vivian Maier Maloof Collection

Vivian Maier, Untitled, 1953 copyright Vivian Maier Maloof Collection


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