Davide Tranchina. Cieli impossibili

Nella mostra Cieli impossibili, realizzata a cura di Sabino Maria Frassà in collaborazione con Cramum al Gaggenau DesignElementi Hub di Milano, Davide Tranchina presenta 15 opere, per lo più inedite, che riflettono sul tema della distanza attraverso l’archetipo dell’orizzonte, assurto a metafora di una sorta di utopia della lontananza in cui l’artista bolognese identifica l’essenza della fotografia. Nella ricerca di Tranchina si incontrano un’attitudine sperimentale quasi scientifica, che si manifesta nella rigorosa registrazione degli effetti della luce sulla carta fotosensibile senza intermediazione di apparecchi fotografici, e un poetico anelito all’indeterminatezza, intesa come sensibile abbandono all’incontrollabilità del processo di creazione e come suggestiva predisposizione all’infinito dell’immagine finale. Per questa duplice natura i suoi lavori si collocano in un limbo intermedio tra la ragione e l’istinto, tra la pura percezione e la speculazione filosofica e riescono ad armonizzare con naturalezza figurazione, astrazione e catalogazione del reale.

Per approfondire la sua poetica e questo progetto gli abbiamo rivolto alcune domande.

In cosa consiste la tecnica dell’off-camera che ha proiettato il tuo nome sulla scena internazionale?
Rinunciare alla visione della fotocamera mi consente di utilizzare la fotografia in un’altra prospettiva. È un modo per smontare il linguaggio e lavorare direttamente con la luce sui materiali fotosensibili senza la mediazione ottica dell’apparecchio che inevitabilmente riporta a una rappresentazione retinica del reale. Mi affascina la possibilità di ottenere impronte di luce di elementi fisici direttamente sul supporto fotografico

Nella mostra Cieli impossibili le opere con passepartout nero segnalano l’utilizzo di luci proprie della camera oscura, mentre quelle con passepartout bianco le opere realizzate attraverso l’esposizione a luce naturale. Quale significato dai a questa distinzione?
La mostra tenta una riflessione sulle diverse nature della luce e per questo ho trovato necessario segnare il passaggio tra le frequenze luminose naturali inquadrate con passepartout bianco e quelle artificiali che all’opposto emergono nello spazio buio della camera oscura.

Durante la presentazione della mostra hai raccontato che la serie Quello che non c’è (2007) è stata l’inconsapevole preludio del progetto Cieli impossibili. Per realizzare quel ciclo avevi esposto la carta fotosensibile alla luce di una lampada a incandescenza, ottenendo un denso campo cromatico giallo con tonalità sfumate. Quale passaggio mentale ti ha condotto alla serie Apparent Horizons che stai portando avanti dal 2017?
Mi piace pensare che le immagini della serie Quello che non c’è (2007) costituiscano una sorta di memoria inconscia del ciclo Apparent Horizons. È servito circa un decennio per farle sedimentare e poi ritrovarle. Con il lavoro del 2017 invece ho voluto concentrarmi sul tema dell’orizzonte e quindi, utilizzando modalità operative simili ma non identiche, ho messo a punto un dispositivo fotosensibile, che mi permettesse di fissare la linea che divide il mare dal cielo o la superficie di un pianeta sconosciuto dal cosmo sovrastante.

Le linee e i colori che strutturano le fotografie esposte creano l’illusione di vedervi immagini di orizzonti, albe o tramonti. Nel tuo lavoro è fondamentale l’ambiguità nel suggerire forme riconoscibili per attirare l’attenzione dello spettatore e traghettare la riflessione sul piano esistenziale e speculativo. Che relazione individui tra la forma e il significato del visibile?
Credo sia indispensabile il riconoscimento della forma per creare un’ambiguità percettiva e concettuale. Ecco perché ho scelto di creare immagini in studio che raffigurano porzioni di infinito esistenti in natura, e che l’osservatore avverte come esistenti, ma che a uno sguardo più attento rivelano le tracce di un inganno. Il disorientamento che proviamo davanti a una fotografia che non è ciò che sembra, è uno dei temi ricorrenti nella mia ricerca.

Il testo critico di Sabino Maria Frassà che accompagna la mostra sottolinea la vicinanza dei lavori esposti con l’espressionismo astratto e in particolare con le atmosfere immateriali di Rothko. Anch’io guardando i tuoi Cieli impossibili ho immediatamente pensato alle irradiazioni cromatiche del pittore americano. Che rapporto hai con la pittura?
In generale nella mia pratica artistica diversi linguaggi, come la scultura e la pittura, vengono smaterializzati per la realizzazione di una fotografia, quindi il percorso che attivo è la testimonianza di una costante attitudine interdisciplinare. Nello specifico la pittura non è soltanto riferimento iconografico, come nel caso evidente di Mark Rothko, ma è importante anche da un punto di vista processuale. Ad esempio in un lavoro precedente come 40 notti a Montecristo (2012-2013), le silhouette del paesaggio notturno sono ottenute spruzzando di vernice delle lastre in vetro che diventano i negativi delle fotografie. In questo senso, il riferimento è a un altro grande artista americano, Jackson Pollock, e all’invenzione del “dripping” come forma espressiva. Probabilmente è per questo che osservando i pezzi in mostra si può avere il dubbio se ci troviamo di fronte a fotografie, dipinti, o disegni, alimentando un’ulteriore ambiguità sulla natura materiale delle opere.

La luce è la sostanza della visione e nei tuoi lavori è allo stesso tempo materia e soggetto della fotografia. Quali aspetti ti affascinano maggiormente di quest’entità così immateriale e potente?
È difficile rispondere in modo esaustivo a questa domanda. Mi interessa la luce come elemento impalpabile e invisibile, ma anche la relazione imprescindibile che essa ha con la fotografia. Sono questioni fondamentali nel mio percorso. Forse la mia ossessione per l’origine mi ha spinto a interrogarmi sull’aspetto fondativo del linguaggio che utilizzo da sempre. Inoltre trovo appassionante la possibilità di ottenere immagini con il minimo indispensabile, senza dipendere da particolari attrezzature tecniche, raccogliendo gli effetti luminosi su supporti fotosensibili. Il tentativo continuo è quello di trovare delle immagini necessarie che scaturiscano da una pulsione inarrestabile, immagini cariche di desiderio.

Il silenzio e la solitudine dei Cieli impossibili ricreano nel piccolo formato la condizione esistenziale sospesa dell’uomo di fronte all’enigma dell’infinito. Pensi che il progresso tecnologico e scientifico della contemporaneità abbia attenuato lo struggimento dell’essere umano nei confronti dell’immensità dell’inconoscibile?
Al progresso tecnologico e scientifico mi pare corrisponda un’accelerazione dell’inarrestabile flusso di immagini che ci investe quotidianamente. L’adattamento compulsivo a modelli di realtà mediati dalle immagini stesse, a cui si accompagna un appagamento illusorio ed effimero, genera di conseguenza un fisiologico allontanamento da quelle tensioni verso l’infinito che in altri momenti storici avevano spinto l’essere umano a oltrepassare l’orizzonte conosciuto. Dal mio punto di vista in questo presente ritorna ancora più indispensabile il pensiero del grande intellettuale surrealista André Breton che affermava “la più grande debolezza del pensiero contemporaneo risiede nella stravagante sopravvalutazione di ciò che è noto rispetto a ciò che ancora rimane da conoscere”.

Info:

Davide Tranchina. Cieli impossibili
a cura di Sabino Maria Frassà
09.07 – 22.09.2020
Gaggenau DesignElementi Hub Milano

Davide Tranchina, Quello che non c’è #3, 2007

Davide Tranchina, Apparent Horizons #4, 2018

Davide Tranchina, Apparent Horizons #46, 2020

Davide Tranchina, Apparent Horizons #59, 2020


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