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Emilio Rojas. The Lions Teeth And/Or The World Was...

Emilio Rojas. The Lions Teeth And/Or The World Was Once Flat

Quanto siamo complici del passato che ereditiamo e della storia che consumiamo nel presente? Il Vecchio Continente, che oggi si sente assediato e invaso da inevitabili e inarrestabili flussi migratori, è ancora totalmente impreparato a gestire l’emergenza e a ipotizzare efficaci strategie di futuro sostenibile: i cosiddetti Paesi Emergenti, sinora considerati alla stregua di impersonali serbatoi di risorse, appaiono ora come pericolose e incontrollabili entità le cui emanazioni umane, culturali e materiali si sono già profondamente insinuate nell’immaginario collettivo occidentale e nelle sue abitudini. Ciò che forse sfugge ancora alle nostre coscienze è che la capillare penetrazione di questa nuova linfa vitale è iniziata ormai cinque secoli fa, quando l’esplorazione del mondo e la fiducia in un antropocentrismo in realtà parziale e unilaterale indussero gli europei a interagire con la naturale distribuzione delle specie viventi innescando nuove esplosive relazioni. Così, mentre il pomodoro viaggiava dalle Ande all’Italia per trasformarsi nel cardine della nostra identità gastronomica e l’Europa scongiurava la carestia grazie alla patata e al mais provenienti dal Sudamerica, l’altro diventava letteralmente carne della nostra carne in un sotterraneo processo di ibridazione che rievoca antichi sacrifici misterici e ancestrali riti di fertilità.

Su queste tematiche verte la prima personale italiana del giovane artista messicano Emilio Rojas, presentata da GALLLERIAPIÙ, che attraverso animazioni in stop motion, video, performance, scultura, fotografia, testi e disegni incentrati sullo studio metaforico del dente di leone (tarassaco) indaga le implicazioni storiche e le persistenze del colonialismo nella contemporaneità. I semi e i fiori di questa pianta considerata infestante sono infatti la materia prima di un viaggio ideale che collega botanica, anatomia e geografia intesi come campi d’azione performativa di un corpo esperito come strumento critico di rivelazione di traumi rimossi, storie soppresse e narrazioni nascoste all’interno delle attuali questioni socio-politiche. Nell’arco di due anni l’artista ha raccolto 15000 denti di leone e più di mezzo milione di semi che nella performance e nell’installazione site-specific in galleria sono i catalizzatori di un innesto erotico tra specie vegetali da cui l’uomo, nudo e indifeso, sembra farsi fagocitare e fecondare.

Il punto di partenza è il video The Lion’s Teeth, incalzante sequenza di immagini in cui un vecchio volume intitolato “History of Europe since 1500” si apre su una mappa delle rotte oceaniche percorse dai colonizzatori spagnoli in cerca di nuove terre di conquista. Al ritmo di un’incalzante colonna sonora le pagine, perforate e inghiottite dall’incontenibile espansione di una fioritura di denti di leone, diventano teatro di una violenta lotta tra frutti tropicali che si inglobano a vicenda prima di marcire e scambiarsi i semi mescolando le loro più intime carnosità. Trasformando la guerra in amplesso, Rojas plasma una dirompente metafora del crogiolo umano che fermenta nell’inconscio delle nostre categorie mentali  per restituirne l’immanenza come brivido sottopelle e come urgenza tellurica.

Il libro, nella sua valenza di testimonianza di un sapere sistematizzato e politicizzato, è il principale materiale con cui l’artista sviluppa e concettualizza le intuizioni espresse dal video declinando il leitmotiv del tarassaco in una poetica rete di implicazioni semantiche. La Biblioteca (De)Coloniale è quindi un tunnel di tomi internazionali stampati tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento inerenti al viaggio, al corpo e alla colonizzazione: allineati su un piedistallo e attraversati da un buio orifizio circolare, nel loro insieme formano un potente cannocchiale spazio-temporale al termine del quale si scorgono l’immagine di Bianca di Castiglia, prima finanziatrice delle esplorazioni di Cristoforo Colombo, e le riprese video di una recente performance in cui Rojas appare sottomesso e ammanettato proprio da un libro aperto e forato.

Preziose riproduzioni fotografiche tratte dalle raccolte di acquerelli commissionate nel XVI secolo dal naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi ad artisti specializzati per documentare le specie botaniche oggetto dei suoi studi sono il supporto per l’incisione senza inchiostro di frasi lapidarie che rafforzano l’ambiguità tra la resistenza e la diffusione delle piante infestanti e i rapporti di forza sottesi alle ondate migratorie umane. Intimidatorie come la rivendicazione di un dolore troppo a lungo soppresso, le parole si scolpiscono indelebilmente nella coscienza di chi legge innescando una vertigine di domande che ripercorrono a ritroso la storia collettiva del mondo come in un rito sciamanico di guarigione. “Le mie radici sono forti come le tue paure” recita l’artista, il cui principale obiettivo è forzare i confini delle abitudini mentali coinvolgendo il pubblico in un’esperienza diretta che crea legami vitali tra la quotidianità, la pratica creativa e l’azione politica come primaria strategia di sopravvivenza culturale nell’era del post colonialismo. Se da un lato quindi Rojas sembra aggredire violentemente lo spettatore rendendo lampante la compromissione di ciascuno nelle questioni socio-politiche più attuali e scottanti, dall’altro si fa interamente carico della sofferenza e dello smarrimento che suscita sublimandoli attraverso il proprio corpo per suggerire una possibile catarsi finale.

Questo meccanismo è molto chiaro nella performance realizzata durante l’inaugurazione della mostra, in cui l’artista si è inizialmente nascosto sotto il tappeto di velluto rosso (simbolo di potere e monarchia, ma anche di confine e ferita) che collega le due installazioni La conquista della terra e History of European Morals, libri-gogna dall’inequivocabile significato che trattengono due mani modellate con un impasto di resina e semi di denti di leone. Coperto dal tessuto e da un cumulo di pomodori in quantità equivalente al suo peso, si è faticosamente liberato trascinando con sé l’oppressivo carico di frutti per poi scagliarli a uno ad uno contro una riproduzione ingrandita a parete del quattrocentesco Atlante di Tolomeo (che omette l’ancora sconosciuto continente americano) concentrando i propri colpi sulla zona corrispondente all’Europa come se la volesse cancellare. L’impossibile eliminazione è sterile quanto l’ingannevole convinzione che la Terra fosse piatta e terminasse nell’ignoto; la somma di fraintendimenti e visioni circoscritte che si scontrano nell’azione genera un corto circuito semiotico in cui l’arma (il pomodoro) è consustanziale al suo obiettivo (la carta geografica tracciata usando il concentrato di pomodoro come inchiostro). Le inestricabili dinamiche della storia ritrovano così la propria reale unità e interdipendenza materializzando la riflessione con cui Umberto Eco concludeva un suo saggio sull’immigrazione: “se vi piace sarà così, se non vi piace sarà così lo stesso”.

Emilio Rojas. The Lions Teeth And/Or The World Was Once Flat.
26 gennaio – 18 marzo 2017
GALLLERIAPIÙ
Via del Porto 48 a/b Bologna

Emilio Rojas, The Lion’s teeth, stop motion animation, 2014-2015, video still frame, courtesy GALLLERIAPIÙ

Emilio Rojas, The world was once flat, 2016, murale site specific con concentrato di pomodoro, courtesy GALLLERIAPIÙ

Emilio Rojas, Noi siamo qui, 2016, stampa fotografica fine-art su carta cotone hahnemmuhle, stampa a rilievo tipografica, cornice courtesy GALLLERIAPIÙ

Emilio Rojas, Biblioteca (De) Coloniale, particolare, 2016, installazione con libri, I-phone, quarzo, scultura di resina e semi di denti di leone, piedistalli e plexiglass, courtesy GALLLERIAPIÙ

Emilio Rojas, The Lions Teeth And/Or The World Was Once Flat, 2016, installation view, courtesy GALLLERIAPIÙ


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