Sarebbe utile domandarsi se Paul Cézanne fosse folle o saggio quando inveiva contro l’eccessivo accademismo pittorico asserendo come «copiare… copiare… sì… Non c’è altro che questo. Per quanto mi riguarda, io voglio solo perdermi nella natura […]avere gli stessi toni duri delle rocce, l’ostinazione razionale del monte, la fluidità dell’aria, il calore del sole».[1] Pertanto, su questa linea interpretativa nessuno si è spinto oltre Cézanne, capace com’era di percepire che la natura non amava nascondersi nelle sue peculiari vedute bensì rivelarsi tramite sensazioni senza alcuna intermediazione. Proprio tale attitudine, che per Cézanne era un infinito smarrirsi nel paesaggio, emerge anche nei lavori dell’artista Brian Scott Campbell (1983, Columbus, Ohio, USA), le cui opere sono esposte alla mostra When the trees touch the clouds, presso la galleria Richter Fine Art di Roma, dal 24 maggio al 29 luglio 2022.
La personale si sviluppa negli spazi della galleria, caratterizzata da un rinnovato e ampio ambiente espositivo, che definisce una preferenza allestitiva netta, per alcuni opinabile, giacché in una sala si espongono le opere su tela, mentre nell’altra i disegni. A tal proposito, si potrebbe obbiettare che era da diverso tempo che a Roma non si proponeva una mostra così equilibrata, se non altro per l’ampio spettro di opere esposte, considerando proprio come tale offerta rappresenti motivo di interesse per l’accurata selezione qualitativa dei lavori. Le opere, in altri termini, richiamano in maniera consapevole una stimolante scelta che combacia con la filosofia del gallerista Tommaso Richter, non vincolato a scelte assoggettate alle classiche regole dell’art system. Tutto ciò è anche frutto di una poetica indipendente della galleria, che è solita promuovere progetti espositivi culturalmente concreti, convincenti e fortemente cifrati per il loro carattere organico. Accezione quest’ultima riferibile a tutti gli artisti che solitamente espongono nelle sale della Richter Fine Art, in quanto ideatori di apprezzabili contributi, creati in perfetta sintonia con la natura umana, ovverosia auscultando le vibrazioni dei loro stessi organi, prima la pancia e, in contemporanea, il loro cuore e il cervello.
Per ritornare alla rassegna romana, va detto che vi si trovano opere capaci di svelare a pieno le caratteristiche espressive dell’artista, quali il saper delineare un corso creativo sempre coerente, sia per le tele sia per i disegni, e l’essere in grado di generare immagini intuitive, grazie alle colorazioni basiche caratterizzate da pennellate diluite, planari e sintetiche. Tratti, nel loro insieme, disposti in maniera condensata e uniforme sullo sfondo pittorico, differenziandosi da esso solo per le nette linee di contorno che chiudono le forme paesaggistiche entro le lamelle. Da qui è facile desumere come i virtuosismi ideati inducano verso un originale e autonomo modello pittorico, ponendosi proprio sulla scorta di quanto affermava il filosofo Alain Roger circa la pittura paesaggistica, quando esortava «che noia, che pasticcio! L’artista ha per vocazione di negarla, neutralizzarla in vista di produrre i modelli che ci permetteranno al contrario di modellarla».[2] Un modello, quello di Campbell, in altri termini, che lo induce a lavorare su tele di medie dimensioni, caratterizzate da una riduzione formale non concentrata sulla significazione, giacché i suoi paesaggi vivono autonomamente in catene associative, senza essere subordinati ad alcuna storia.
In questo modo l’artista ritrae del paesaggio ciò che si manifesta solo fenomenicamente con un piglio volutamente puro, in modo tale che i tratti, imbevuti di luce, sembrino proprio quelli di un “fanciullo” che segue una logica aerea e geometrica, abile a riportare la fluidità degli ambienti naturali. Ecco, quindi, che dietro la percezione innocente di Campbell, si genera una pittura snella, fluida e decisamente bidimensionale, verosimilmente atta a seguire uno svelamento dell’informe[3] forse rivelatore di qualcosa che è sapientemente occultato. Così l’artista non rinuncia a farci vedere, seppur in sintesi, paesaggi vagamente informi i cui profili ruotano ponendosi a loro piacimento in prospettiva. In questo modo le zone di colore avanzano e si stabilizzano in una designazione spaziale come lacerti di toppe tonali dall’accordo armonico, per rappresentare un ambiente naturale limpido e ritmico allo stesso tempo. Proprio così, squadrature e rovesciamenti dei piani diventano magicamente le forze più progredite di sensazioni visive in cui allo spettatore – volendo citare le considerazioni di accompagnamento alla mostra del filosofo Giuseppe Armogida – «È sembrato di vedere… illusione pura, fruizione insicura di qualcosa di insicuro».[4]
Tuttavia, lontano da ogni qualsivoglia vaga supposizione, la forza espressiva delle opere di Campbell risiede nei disegni, di cui un’interessante selezione è finemente esposta, entro cornici di legno neutro, nel nuovo ambiente della galleria. Qui appare ancora più evidente come per l’artista tale pratica non si ponga come un’attività a latere, caratterizzandosi, invece, quale manifestazione di una pratica vitale, in quanto mezzo di trascrizione del mondo. Le opere dimostrano con vigorosa eloquenza, alla pari dei dipinti, che Campbell è capace di individuare una situazione spaziale autonoma tale da riportare le forme della vita a un cielo sospeso di essenze. Del resto, lo stesso artista si affida alla pratica disegnativa non rinunciando a essere visionario, poiché con poche linee di grafite su carta definisce accentuazioni dinamiche in cui le linee di contorno, rotte in alcune parti, reggono solo apparentemente in modo incompleto e precario un paesaggio che si disintegra in diverse direzioni. Dimodoché le grafie, variate del segno, tengono in primo luogo a suggerire e non a scrivere un paesaggio; proprio perché, verosimilmente Campbell lavora d’intuizione, eseguendo la costruzione di una nuova spazialità, in cui l’unico elemento che differisce è la granulosità della grafite, volta a evitare i contorni, che paiono scansati dall’artista come una minaccia oscura.
Si comprenderà facilmente che tale particolare tangenza di percorso, che accomuna le opere su tela e i disegni, fa emergere istantanee elaborazioni volte a non lasciar residui, con una naturalezza che giova allo sguardo dello spettatore per la sua sospensione attrattiva ed enigmatica. Siccome l’obiettivo primario dell’artista rimane fortemente quello di abolire l’eccesso per concentrarsi sull’essenziale, come l’interfogliatura dello spazio, egli costruisce disinibiti montaggi mettendo in scena sogni paesaggistici dotati di solidità e stabilità, come se ci trovassimo di fronte al rallentamento di una “moviola” su una veduta che scorre davvero adagio.
Volendo ora giungere alle conclusioni è facile chiosare che Campbell sceglie di eseguire una divagazione paesaggistica che è possibile vivere e respirare solo in base ad appigli di innesti spaziali; una fascinazione, in altre parole, verso il paesaggio proprio come la viveva in maniera ostinata e immersiva Paul Cézanne, secondo cui l’artista altro non era che un ricettacolo di sensazioni, un cervello, un apparecchio registratore.[5]
Maria Vittoria Pinotti
Info:
Brian Scott Campbell, When the trees touch the clouds
24/05/2022 – 29/07/2022
Galleria Richter Fine Art
vicolo del Curato 3
00186, Roma
[1]Joachim Gasquet, Cézanne. Dialogo di un’amicizia, a cura di Marcello Ghilardi, postfazione di Luca Taddio, Mimesis Edizioni, Arte e critica, 2010, p. 125.
[2]Paolo D’Angelo, Estetica e paesaggio, Il Mulino, Prismi, 2009, pp. 179-180.
[3]Alberto Castoldi, Epifanie dell’Informe, Quodlibet Studio, 2018, p. 75.
[4]Giuseppe Armogida, Mi è sembrato di vedere, testo critico di accompagnamento alla mostra When the trees touch the clouds, Brian Scott Campbell, presso la Richter Fine Art, Roma.
[5]Joachim Gasquet, Op. cit, p. 110.
Brian Scott Campbell, When the trees touch the clouds, installation view, Richter Fine Art. Ph. Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma
Brian Scott Campbell, Stone Bridge, 2021. Pittura flashe a base vinilica su tela, cm 50 x 40. Ph. Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma
Brian Scott Campbell, Guiding light, 2022. Pittura flashe a base vinilica su tela, cm 50 x 40. Ph. Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma
Brian Scott Campbell, Untitled BSC01, 2021. Grafite su carta trovata, cm 48 x 22. Ph. Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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